L’Alzheimer, una delle malattie neurodegenerative più diffuse al mondo, continua a rappresentare una delle sfide più gravi per la salute pubblica, non solo per i pazienti, ma anche per le loro famiglie. Nonostante i progressi scientifici nella comprensione della malattia, le condizioni dei malati e dei caregiver non hanno visto miglioramenti significativi negli ultimi 25 anni, in particolare in Italia. L’aumento della durata delle diagnosi, l’incremento dei costi per le famiglie, e il crescente disimpegno del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) sono solo alcuni degli aspetti critici che emergono.
In questo contesto, è ormai ritenuto non più rinviabile l’avvio di una regia centrale che coordini diagnosi, cura e assistenza in tutto il Paese.
Il recente evento di Milano, che ha visto la presentazione del 4° Rapporto Censis-AIMA, ha sottolineato con forza questa necessità.
La situazione attuale: rilevamenti e criticità
Il Rapporto Censis-AIMA evidenzia una situazione drammatica che colpisce non solo i malati di Alzheimer, ma anche i loro caregiver, i cui numeri sono in costante crescita. Le statistiche mostrano che il 62,2% dei pazienti con Alzheimer e oltre il 70% dei caregiver sono donne. Più preoccupante è il dato che uno su cinque dei caregiver non riceve alcun tipo di supporto, evidenziando una lacuna critica nei servizi di assistenza.
In particolare, il 42,3% dei familiari afferma che, dopo la pandemia da Covid-19, non c’è stata alcuna variazione significativa nell’offerta di servizi, e il 29,8% segnala un peggioramento delle condizioni. Inoltre, il costo annuo per paziente è salito a 72.000 euro, con un incremento reale del 15% rispetto al 2015, un dato che dimostra la crescente difficoltà economica per le famiglie e la necessità di una riforma urgente.
I centri per il Deterioramento Cognitivo e le Demenze (CDCD)
Patrizia Spadin, Presidente dell’AIMA, ha sottolineato l’importanza di una “regia centrale” per affrontare la sfida dell’Alzheimer, avvertendo che il potenziamento e la riorganizzazione dei CDCD devono essere prioritari. Questi centri, essenziali per la diagnosi precoce e il trattamento dei pazienti, sono però sottodimensionati e mal distribuiti sul territorio. Attualmente, solo il 37,7% dei pazienti è seguito da un CDCD, un dato in forte calo rispetto al 56,6% registrato nel 2015.
L’accesso limitato a questi centri di eccellenza, combinato con i tempi lunghi per ottenere una diagnosi (ora mediamente di 2 anni rispetto ai 1,8 anni del 2015), evidenzia un quadro di inadeguatezza del sistema sanitario italiano. Un intervento strategico e tempestivo sarebbe fondamentale per fare fronte a questa emergenza sanitaria, non solo per i pazienti già diagnosticati, ma anche per coloro che presentano segni di deterioramento cognitivo lieve (MCI, Mild Cognitive Impairment).
L’invecchiamento cognitivo e la nuova frontiera della diagnosi precoce
Un altro aspetto fondamentale del rapporto riguarda la popolazione di pazienti con MCI. Si tratta di un gruppo di individui che, pur presentando un lieve deficit cognitivo, non rientrano ancora in una diagnosi di demenza. Tuttavia, questa condizione è un indicatore importante, in quanto circa il 30-40% di queste persone sviluppa successivamente una forma di demenza, prevalentemente di tipo Alzheimer.
Nel contesto italiano, si stima che oltre 700.000 persone siano affette da MCI, e l’identificazione precoce di chi corre il rischio di evolvere in Alzheimer potrebbe non solo migliorare la qualità della vita, ma anche ottimizzare l’efficacia dei farmaci innovativi, che stanno lentamente entrando nel panorama terapeutico. Questi farmaci, mirati a contrastare l’amiloide nel cervello, hanno costi elevati e importanti effetti collaterali, pertanto devono essere riservati a pazienti ad alto rischio di sviluppare demenza.
Il Progetto Interceptor
A questo proposito, Paolo Maria Rossini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma, ha anticipato i risultati del progetto Interceptor, un’iniziativa di ricerca finanziata dal Ministero della Salute e finalizzata alla valutazione dei biomarcatori per identificare i pazienti a rischio.
Il progetto si propone di utilizzare una combinazione di biomarcatori strumentali (come la risonanza magnetica, la PET, e l’elettroencefalogramma) per identificare con maggiore precisione i pazienti con MCI che sono a rischio di sviluppare la demenza.
Questo studio nazionale ha coinvolto oltre 350 persone, con un follow-up di tre anni, per monitorare l’evoluzione della malattia e migliorare l’accuratezza della diagnosi. I primi risultati, che saranno presentati a febbraio 2025 all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, potrebbero rappresentare una svolta nella diagnosi precoce dell’Alzheimer, un passo essenziale per il trattamento mirato e tempestivo.
Necessità di un piano nazionale
L’evento di Milano ha dunque messo in evidenza la necessità di un intervento urgente e coordinato a livello nazionale. Come ha dichiarato Patrizia Spadin, «Il sogno è che la nostra associazione possa prima o poi chiudere, perché significherebbe che la malattia di Alzheimer è stata finalmente sconfitta». Per arrivare a questo obiettivo, è imprescindibile che il sistema sanitario italiano sviluppi una rete omogenea di centri per la diagnosi e il trattamento dell’Alzheimer, con un adeguato finanziamento e risorse.
La strada da percorrere è ancora lunga, ma il quadro tracciato dal rapporto Censis-AIMA e dai dati emergenti dai progetti di ricerca come Interceptor offre una speranza concreta per i pazienti e le loro famiglie. Il tempo per un intervento efficace è ora, e non più rinviabile.